Sognavo l'Africa
Un viaggio poco turistico alla scoperta di una piccola parte del Continente Nero.
di Camilla Lorenzini
15 APRILE 2022
Estate 2013: Sognavo l’Africa
Penso che uno dei miei grandi sogni fin da quando ero bambina era andare in Africa. Il mal d’Africa dicono sia una patologia comune tra i viaggiatori del Continente Nero: il calore di quel sole, gli aromi delle terre rosse, i suoni della notte … non si dimenticano più, sono sensazioni che si avvinghiano ai ricordi e restano indelebili nel cuore di chi le ha vissute. Io dicevo di avere questo male prima ancora di esserci stata.
Ho sempre immaginato di ritrovarmi immersa in quella natura incontaminata, trasmettendo la mia passione per quelle terre attraverso i miei disegni, dai primi scarabocchi infantili fino alle pitture più recenti. Nei miei lavori non mancavano mai animali esotici come leoni ed elefanti, ed erano sempre presenti i colori caldi e avvolgenti dei tramonti sulla savana. Sono cresciuta con i documentari della National Geographic, immaginando cosa si potesse provare a rimanere in silenzio nelle notti intense dell’Africa, ascoltando il richiamo intimidente del leone e le risate incessanti e stridule delle iene.
Quando, nel 2012, ho partecipato all’Esperienza Estiva in missione, speravo tanto mi assegnassero al gruppo che sarebbe partito per l’Africa. Non avendo voce in capitolo riguardo la destinazione sono poi arrivata in Brasile, dove ho imparato una lezione importantissima: non sempre quello che desideriamo è ciò di cui abbiamo bisogno in quel momento e la vita può riservarci sorprese meravigliose, se dimostriamo disponibilità e apertura per accoglierle. Se tornassi indietro ripartirei per il Brasile.
In quel momento non sapevo che solo un anno dopo avrei potuto realizzare il mio sogno d’infanzia.
Era giugno 2013: avevo finito il mio ultimo (e dico ultimo degli ultimi) giorno di scuola e stavo preparando gli esami di maturità.
Non è stato un periodo facile; lo studio non è mai stato un ostacolo ed ero pronta per questa tappa, il motivo della mia destabilizzazione era invece la salute del mio carissimo nonno paterno. Era ormai giunto alla fine della sua lotta e ogni giorno poteva essere l’ultimo che passava con noi. Alla fine ha deciso di lasciarci proprio il giorno del mio primo esame scritto: mentre io scrivevo un tema sulla vita, lui salutava i figli che gli stavano accanto, certo che un giorno ci ritroveremo tutti insieme. Il nonno è stato per me il più grande esempio di bontà, umiltà e perdono e sapere che la sua vita è stata ricca di affetti e umanità mi rende un po’ meno triste a lasciarlo. Il suo insegnamento rimarrà con me per sempre.
Dopo il temporale torna sempre sereno: anche se gli ultimi mesi non erano stati dei più allegri, la prospettiva di coronare il mio sogno insieme a tutta la mia famiglia era motivo di grandissima gioia ed impazienza. Il nonno ci aveva raccomandato fino all’ultimo istante di rimanere sempre uniti: quale miglior occasione se non un viaggio così intenso da vivere e condividere con i miei genitori e le mie sorelle?
La nostra prima meta era Maputo, capitale del Mozambico nella parte più meridionale del paese: lì non saremo stati soli, ma ci sarebbe stata una grandissima famiglia ad accoglierci.
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Famiglia mozambicana.
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Il padre della migliore amica della mia sorellina è proprio di Maputo e, anche se da parecchi anni vive in Italia con la moglie e i quattro figli, torna spesso nella sua terra natale dove lo aspettano i numerosi fratelli e nipoti. Quell’estate lo avrebbe accompagnato tutta la sua famiglia al completo, per passare due mesi con i nonni e far conoscere ai parenti l’ultima cuginetta italiana che ormai aveva già tre anni. Vista l’occasione di questa trasferta, siamo riusciti ad organizzare il nostro viaggio approfittando della meravigliosa opportunità di avvicinarci al Mozambico direttamente attraverso la sua gente.
Il viaggio è stato veloce: partenza dall’aeroporto di Venezia con scalo a Doha, in Qatar, per poi ripartire su un lussuoso aereo della Qatar Airways con destinazione finale Maputo.
La sosta nella penisola arabica all’andata è stata molto breve, ma non dimenticherò mai il caldo soffocante che mi ha avvolta come un anaconda affamata appena uscita dal portellone dell’aereo: avevo in mano il biglietto cartaceo del prossimo volo che in meno di trenta secondi si è letteralmente sciolto fra le mie dita. L’altra cosa che mi ha immediatamente colpita appena entrata nel salone dell’aeroporto sono state le donne coperte dal burqa integrale, tutto nero, che lasciava appena intravedere gli occhi attraverso la fitta retina che li copriva. Non erano la maggioranza, c’erano molte viaggiatrici occidentali a capo scoperto, ma quelle presenti si notavano immediatamente e mi provocavano un certo fascino e interesse. Anche molti uomini erano vestiti con il lungo abito bianco e il copricapo a quadretti bianco e rosso: ho provato una sensazione strana, mi sentivo davvero in un posto esotico.
L’arrivo a Maputo subito ha suscitato in me invece un qualcosa di familiare: le scritte in portoghese ed i lineamenti delle persone mi facevano fare un tuffo all’anno precedente, riportandomi alla mia amata Bahia afrobrasiliana. Abbiamo avuto qualche problema con il visto d’ingresso – avrebbe dovuto essere lì presente il nostro amico Vicente con i documenti necessari, ma al nostro arrivo eravamo soli. Per fortuna con un sorriso e l’atteggiamento giusto (e non tralasciamo il portoghese imparato in Brasile l’anno precedente) anche l’apparentemente severo ed intransigente funzionario della migração si è lasciata andare in una piacevole conversazione piena di suggerimenti su tutti i posti che avremmo assolutamente dovuto vedere in Mozambico.
Ottenuti i visti e recuperati i bagagli ci siamo riuniti finalmente con i nostri amici che erano arrivati con un minivan scoppiettante per portarci a casa. La famiglia di Vicente abita nella cittadina di Matola, un centro urbano a sud della capitale dove siamo giunti dopo aver fatto slalom nel traffico polveroso e incontrollato della città. Tutto a prima vista mi ricordava il Brasile, o meglio, le zone più povere del nord est come le favelas di Salvador e le strade sconnesse che conducevano ai remoti quilombos. La casa natale di Vicente ci è apparsa a lato di una strada sterrata, arsa dal sole ma piuttosto ampia: il cancello si era aperto e subito hanno cominciato a correrci incontro varie persone con segni di benvenuto. In fondo al cortile secco per la stagione, ma pieno di alberi da frutto, si sviluppava in lunghezza su un unico piano l’abitazione principale: era composta da circa cinque stanze alle quali si poteva accedere solo dall’esterno. Nell’angolo in fondo del giardino si notava subito un’altra casetta con un delizioso tetto in paglia, ancora in costruzione. Infine una lunghissima tavola già apparecchiata dominava lo spazio antistante l’abitazione: era quello il punto di ritrovo dell’intera famiglia, che contava sempre qualche posto in più per eventuali ospiti sopraggiunti all’ultimo momento.
Il nostro arrivo era tutt’altro che inatteso: nonna Amelia ci ha accolti radiosa e nel suo abbraccio sincero ho sentito davvero di essere la benvenuta. Per non parlare poi del piccolo nipotino Chris che non si sarebbe staccato dalla mia schiena per tutti i primi giorni di permanenza! Grazie a lui il mio portoghese si è rinvigorito subito, continuando ad apprendere nuovi vocaboli grazie alle nostre belle chiacchierate.
Prima di mangiare tutta la famiglia ha intonato un canto commovente in nostro onore, per ringraziare della nostra presenza: oltre ai brividi sulla pelle per la potenza ed il calore di quelle voci, ci è scesa anche qualche lacrimuccia di commozione vedendo tanta gioia nel ricevere gli ospiti.
Non scorderò mai quel primo pranzo tutti insieme: il riso dominava la tavola essendo l’alimento base della dieta mozambicana, era poi presente un’abbondante insalata di cipolle e pomodori del giardino della nonna, un pentolone di pesce stufato a noi ignoto e delle verdure dai nomi insoliti cotte nel latte di cocco e arachidi. Questi piatti sarebbero poi diventati comuni sulla nostra tavola italiana una volta ripartiti, non solo per i sapori esotici, ma soprattutto per i ricordi che rievocavano i momenti condivisi insieme attorno a quella tavola nel giardino della nostra avò adottiva.
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Temos um problema: La Grande Cacca parte 1
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Dopo la prima tappa di ambientazione a Maputo, il nostro viaggio doveva proseguire alla volta del Sudafrica, dove ci attendeva l’esplorazione del Kruger Park ed i safari nella savana.
Per poterci muovere in libertà e senza problemi (ahimè!), Vicente ci aveva procurato un’automobile degna delle nostre aspettative: la mitica, unica, insuperabile e irripetibile Grande Cacca I. Era un Pajero bianco/grigiastro un po’ malandato dagli anni e dal clima, appartenente ad un presunto autonoleggio di Maputo.
L’inizio della nostra avventura era già partito con qualche lieve sospetto sul funzionamento della nostra auto, in quanto l’assicurazione non era stata pagata e la revisione assente. Per fortuna che il mio pignolo papà ha insistito per controllare tutti i documenti, altrimenti ci avrebbero negato l’accesso alla frontiera sudafricana – dove sono in vigore ben altri standard di circolazione rispetto al confinante Mozambico. La nostra partenza da Maputo è stata quindi ritardata di un paio d’ore, durante le quali mio padre ha pagato l’assicurazione e pagato l’addetto alle revisioni perché affrancasse il bollo sul libretto, senza nemmeno dare un’occhiata veloce all’automobile.
Sistemati gli intoppi “puramente burocratici” abbiamo potuto riprendere la marcia, arrivando alla nostra destinazione sudafricana che era già buio profondo.
Si pensava di riposare un po’ la mattina, per recuperare le fatiche del lungo viaggio; ma non appena abbiano intravisto alle prime luci dell’alba i facoceri che passeggiavano fuori dalla nostra finestra e le scimmiette che correvano sui rami degli arbusti nel giardino del lodge, tempo pochi minuti ed eravamo tutti a bordo del nostro veicolo (al momento ancora non battezzato), pronti per affrontare la nuova giornata con entusiasmo.
L’esplorazione del parco è stata avvincente: dopo aver visto centinaia di antilopi al pascolo e ancora facoceri che razzolavano nelle sterpaglie, senza nemmeno accorgercene con anticipo ci siamo ritrovati davanti un immenso elefante solitario. Era solo il primo di tanti che si sarebbero poi presentati nei giorni seguenti, ma l’emozione provata per quel primo gigante delle praterie a passeggio nelle sue terre natie è stata irripetibile.
Nel pomeriggio, ormai quasi prossimo al tramonto, ci siamo fermati sul ciglio della stradina sterrata, di fianco ad un arbusto secco dietro al quale parevano esserci un branco di leoni: l’eccitazione era alle stelle! Abbiamo spento il motore per non spaventarli, i finestrini erano abbassati, il tettuccio aperto per godere al massimo dell’aria africana. Il tempo passava e a parte qualche mugolio e gli avvoltoi che si radunavano tutt’attorno, dei leoni non vi era nessuna traccia visiva.
Visto che entro l’ora del tramonto bisognava uscire dal parco e che eravamo piuttosto inoltrati nelle strade che portavano verso l’interno, abbiamo deciso di lasciar perdere e dirigerci verso l’uscita. Il Kruger Park ha una superficie di 19.633 km2 e i tempi di percorrenza sono molto lunghi, dovuti alle strade sterrate e all’impossibilità di superare i 50 km/h per non rischiare di ferire la fauna.
Peccato che la nostra fedele automobile non ne voleva sapere di ripartire: non dava cenni di vita. Ipotizzando che probabilmente la batteria fosse completamente a terra, subito dopo abbiamo realizzato di essere fermi nel mezzo della savana, al tramonto, con i finestrini spalancati e i leoni a pochi metri da noi (che però continuavano a stare nascosti). Dulcis in fundo, il nostro cellulare d’emergenza con numero mozambicano era fuori servizio.
Non ci siamo però fatti prendere dal panico! Per fortuna non eravamo i soli ad esplorare il parco e, trovandoci fermi nel mezzo del cammino, una gentile signora sudafricana con un SUV si è offerta di chiamare in soccorso per noi i rangers del Kruger. Comunicata la nostra posizione dovevamo solo rimanere in attesa.
Dopo circa 40 minuti è sopraggiunta la Jeep dei guardaparco, ai quali abbiamo spiegato la situazione. Concordando sul fatto che probabilmente la causa della nostra fermata fosse la batteria, sono ripartiti alla volta del campo più vicino per trovare i cavi necessari a far ripartire il Pajero (no, non li avevano con sé a bordo della loro mega Jeep …).
Dopo un’altra abbondante ora di attesa sono ricomparsi con i cavi e dopo qualche tentativo ci siamo rimessi in moto. I rangers ci hanno caldamente consigliato di cambiare la batteria ma ormai avremmo dovuto aspettare l’indomani, era troppo tardi; ci hanno però assicurato che saremmo arrivati fino al nostro alloggio, ad una condizione: non dovevamo assolutamente spegnere l’auto durante il tragitto.
Fin qui sembrava tutto risolto …. Via a tutta birra verso il nostro campo base! Stavamo percorrendo una strada abbastanza grande, ormai nell’oscurità, quando due veicoli della polizia ci hanno fatto segno di accostare: ancora! Questa giornata sembrava non voler finire … ci siamo avvicinati, abbiamo abbassato i finestrini e, con il motore rigorosamente acceso, abbiamo cercato di capire il motivo della fermata. La nostra auto non aveva i fari a norma, o meglio, nessuna luce/spia/tasto luminoso sembravano svolgere la funzione per la quale erano stati progettati; questo ci avrebbe causato un lungo controllo e probabilmente una multa.
Ho cercato di spiegare la situazione in breve tempo (“eh sì, abbiamo proprio bisogno di un meccanico, ma come sapete è chiuso al momento …”) e le nostre facce sfinite e sufficientemente preoccupate hanno fatto il resto: i poliziotti ci hanno esortati a recarci tempestivamente dal meccanico all’indomani, ma per il momento potevamo proseguire per raggiungere il nostro alloggio al più presto.
Quando abbiamo varcato il cancello del lodge ci siamo sentiti immensamente sollevati: la prima cosa che abbiamo fatto è stato battezzare la nostra compagna di sventure. Il nome di Grande Cacca (viaggiante – se va tutto bene), non glielo toglieva nessuno! (Ispirato al mitico film “Vita da Camper” che rappresentava molto spesso le nostre avventure “on the road”).
Il giorno seguente siamo riusciti a trovare una specie di capannone dove svolgevano lavori di meccanica: dopo qualche ora di attesa la batteria è stata cambiata (dopo che il tecnico ha perso vari bulloni nel motore dell’auto e che ha unto i sedili con l’olio per lubrificare il tettuccio, che versava dal barattolo della Ricotta: il tettuccio ancora non si chiudeva – abbiamo rinunciato).
Insomma, a parte il fatto che le spie continuavano ad accendersi e spegnersi a piacimento (come quelle dell’albero di Natale in modalità “sparkling”), il tettuccio doveva restare aperto, il finestrino posteriore sinistro invece era chiuso e velato da una pellicola grigio scuro e che il conducente doveva entrare al suo posto passando dal sedile accanto perché non si apriva la sua porta, la Grande Cacca era di nuovo attiva e pronta a ripartire!
Alla prima sosta all’interno del Parco si è ripresentato lo stesso identico problema del giorno prima: fortuna che questa volta eravamo nel campo, dove ci hanno assistiti per resuscitare la batteria nuova e già persa. In realtà il problema non era la batteria: era l’auto!
Il nostro viaggio doveva proseguire per regioni remote e senza un veicolo sufficientemente affidabile non era possibile continuare con il nostro piano. Per nostro sollievo ci è venuto in aiuto Vicente: aveva trovato un’altra auto a noleggio e sarebbe venuto fino in Sudafrica il giorno dopo per fare il cambio, cosicché noi avremmo potuto procedere senza altri intoppi o incidenti.
L’attesa della nuova auto è stata a dir poco emozionante: ci eravamo appostati a una stazione di servizio lungo la strada, seduti all’ombra di un pergolato un po’ decadente e con gli occhi puntati verso la direzione da dove sarebbe dovuto arrivare il nostro salvatore a bordo della mitica sostituta. Passavano SUV di ogni genere: rossi, bianchi, blu (eh, io le auto le distinguo per colore …), ma anche di ogni marca: Range Rover, Jeep, Mitsubishi … i nostri occhi sempre puntati, fantasticando su quale sarebbe stata la prescelta. Comprensiva la nostra disperazione quando l’unica auto che si dirigeva verso di noi era una assolutamente identica, per colore, modello e anno di immatricolazione alla nostra Grande Cacca!!!
Così, dopo dei rapidi saluti e la presa di coscienza che quella era proprio il nostro nuovo cavallo di battaglia, siamo ripartiti per l’ennesima volta. Vicente ci aveva assicurato che questa assomigliava sì alla precedente, ma certamente non ci avrebbe causato alcun problema, eravamo in una botte di ferro!
Rincuorati e pieni di speranza abbiamo potuto proseguire, con una leggera fretta, per arrivare in tempo al campo base nel Kruger Park dove avevamo appuntamento con i rangers che per quattro giorni ci avrebbero portato nel cuore del parco, nella savana incontaminata per scoprire a passo d’uomo le meraviglie della natura selvaggia. Eravamo quasi in orario, malgrado i ritardi accumulati per la Grande Cacca; mentre percorrevamo a 40 km/h la stradina sterrata che conduceva al campo (mancavano meno di 10 km), abbiamo sentito un boato improvviso e uno scossone che ci ha fatto tremare tutti: cos’era successo??
Nel Kruger Park è assolutamente vietato uscire dai veicoli, se non nelle apposite aree sosta, pena una multa salatissima ed eventuali incontri troppo avvicinati con animali non sempre pacifici. In quell’occasione abbiamo dovuto fare uno strappo alla regola per verificare l’accaduto: il copertone della ruota anteriore destra era completamente sfasciato, come se fosse stato squartato con violenza dal cerchione. Probabilmente era proprio ciò che era accaduto. Non potevamo certo cambiare la ruota li, ma nemmeno volevamo arrivare in ritardo al punto di ritrovo e far partire i nostri compagni di viaggio senza di noi. Abbiamo provato a rimettere in moto, procedendo a passo d’uomo e sperando di non arrecare ulteriori danni alla Grande Cacca (II – il nome era di nuovo meritatissimo). La prima auto che ha provato a superarci l’abbiamo intercettata: dopo aver scritto velocemente su un foglio sgualcito la giustificazione al nostro ritardo abbiamo pregato l’autista di consegnarla ai rangers nel punto di ritrovo, così per lo meno potevano sapere che non intendevamo dare buca al tanto atteso trekking.
Tutto è bene quel che finisce bene: hanno ricevuto il nostro messaggio e hanno ritardato la partenza, permettendoci di partire per quest’altra avventura. Al nostro ritorno la Grande Cacca ci attendeva nel parcheggio, pronta per farsi cambiare la ruota – certo, non è stato così semplice, mio papà e mia sorella hanno dovuto brevettare un ingegnoso sistema di cric alternativo, visto che quello presente nel “kit di sopravvivenza” bastava appena per sollevare un motorino … così tutta la famiglia si è data da fare per trovare sassi e mattoni che potessero in qualche modo sollevare la pesante carrozzeria.
Come si mette la ruota di scorta quando si buca: lezione pratica imparata! (ok, vedremo se quando sarò da sola sarò in grado …).
Durante il resto del viaggio la Grande Cacca II si è comportata bene, era ormai diventata una vecchia amica e tutti amavamo le sue piccole imperfezioni che la rendevano unica.
L’ultima tappa a nord del Mozambico era la remota località di Vilanculos (il nome è tutto un programma) dove volevamo trascorrere un po’ di giorni immersi nelle bellezze incontaminate dell’Oceano Indiano. La prima sera abbiamo deciso di andare a cena in una specie di ristornate gestito da un portoghese rifugiatosi da tempo nell’ex colonia lusitana; essendo il posto un po’ distante dalla nostra abitazione momentanea e dovendo percorrere delle strade buie e desolate abbiamo avuto la confortante idea di farci accompagnare dalla Grande Cacca II. Raggiunta la destinazione, durante l’ultima manovra di parcheggio, il cambio improvvisamente si è inceppato, fermo sulla retromarcia, in modo che si potesse procedere solo all’indietro. Temos um problema (frase che ci è stata ripetuta un numero infinito di volte durante la nostra permanenza in Mozambico): o così o non ci si muove. In una località in mezzo al nulla, a 700 km dalla capitale (di strada semi sterrata a una corsia e mezza con tempi di percorrenza da definirsi di chilometro in chilometro) non c’era di certo il pezzo di ricambio che serviva a noi – e neanche qualcuno istruito a montarlo. Niente da fare: era giunto il momento di abbandonare la nostra nave. Grazie ad un gruppo di motociclisti sudafricani dalle sembianze vichinghe, la nostra compagna è stata spinta all’interno del cortile del ristorante: mio padre con l’ernia e quattro donne al seguito non avrebbe potuto farcela da solo (questa la spiegazione ai nostri aiutanti, che sono stati ricompensati con un giro di birre). Povera Grande Cacca! Dovevamo abbandonarla lì al suo destino e cercare un metodo alternativo per tornare a Maputo. Come l’avrebbero recuperata? I carri attrezzi non esistono … non l’avremo mai saputo e questo ci ha resi tutti un po’ tristi. Certo non era stata un’auto efficiente ed affidabile, ma senza di lei non potremmo ricordare con un sorriso tutti i momenti strampalati che ci ha regalato.
Addio Grande Cacca! Non ti dimenticheremo!