Missione in Brasile
Alla scoperta del Nordeste del Sudamerica attraverso una cultura secolare di colonizzazioni.
di Camilla Lorenzini
18 GIUGNO 2022
Esperienza Estiva in Missione
Ho sempre avuto la voglia e il desiderio di viaggiare in posti incontaminati, guidata dal mio spirito avventuriero, alla scoperta di nuove culture con le quali confrontarsi e poter imparare a vedere il mondo anche attraverso occhi diversi.
Nell’ottobre del 2011 mi sono imbattuta nel volantino del Centro Missionario Diocesano di Trento, il quale proponeva un’esperienza estiva in missione, della durata di un mese. Ho colto subito l’occasione per lanciarmi in una nuova avventura e mi sono iscritta a questo progetto che si divideva in due parti: prima un percorso di preparazione e riflessione su temi riguardanti la cooperazione internazionale e la rete missionaria presente nel Terzo Mondo e le sue culture, della durata di sei mesi. In seguito un mese in estate da trascorrere presso una missione gestita da un missionario trentino nel Sud del Mondo, condividendo con lui la sua quotidianità immergendosi completamente nella cultura del posto.
Inizialmente speravo con tutto il mio cuore di andare in Africa ed ero rimasta un po’ scossa dal fatto che non fosse possibile scegliere la destinazione; poi mi sono lasciata prendere dalla bellezza e il fascino di quel po’ di mistero che mi avrebbe avvolta per almeno cinque mesi durante il corso condividendo l’attesa (e poi la sorpresa) con tutti gli altri partecipanti: eravamo una trentina di persone unite dalla stessa voglia di scoprire.
Col passare dei mesi, i ragazzi della “comix” che tenevano il corso ci avrebbero poi suddivisi in gruppetti più piccoli e assegnato ad ognuno di questi una diversa destinazione.
Ho capito che se si è mossi dal desiderio e la voglia di mettersi in gioco, aperti a qualsiasi tipo di esperienza e sapendo che si può sempre tirare fuori il meglio da ogni cosa e che ogni persona ha qualcosa da insegnarci, non conta la meta.
“Life is a journey, not a destination”, “La vita è un viaggio, non una destinazione”.
La vita è un viaggio e bisogna apprendere tutto quello che si può durante il cammino. Alla fine del percorso di preparazione quindi non mi ponevo quasi più la domanda: “dove andrò?”, ero davvero pronta a partire con gioia per qualunque fosse stato il posto che mi avrebbero assegnato.
Finalmente, in aprile e a tre mesi dalla partenza, ci è stata rivelata la notizia tanto attesa: prima la comix ci ha annunciato i nostri compagni d’avventura e dopo insieme abbiamo dovuto risolvere degli indovinelli che ci hanno portato a scoprire la nostra destinazione.
Io, Cristina, Laura, Barbara, Elvira, Anna e Anna – nominate in seguito le “sette spose per sette fratelli” – il giorno 1 agosto 2012 saremo decollate da Milano Linate per atterrare dall’altra parte dell’Oceano Atlantico: a Salvador de Bahia, in Brasile.
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Salvador de Bahia
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Salvador de Bahia è la capitale dello stato di Bahia, situata sulla costa dell’Oceano Atlantico poco a sud dell’equatore. Fin dalle prime conquiste del Brasile da parte dei portoghesi, Salvador è diventata la capitale dell’America coloniale.
Ancora oggi è considerata la più grande città con popolazione nera al di fuori dell’Africa; Salvador infatti era il primo punto d’approdo per le navi negriere che trasportavano gli schiavi dal Continente Nero all’America. Grazie alle ricchezze ottenute tramite i prodotti delle piantagioni ed il commercio triangolare, la città si sviluppò rapidamente dal punto di vista economico e culturale. Gli innumerevoli schiavi africani che sono stati espatriati in Bahia continuano a vivere nei volti e nei ricordi delle persone di Salvador, i quali purtroppo non hanno ancora smesso di soffrire per le ingiustizie e gli abusi di potere da parte dello Stato Brasiliano.
A Salvador io e le mie sei compagne alloggiavamo nel mezzo della favela di Sussuarana, in un locale all’interno di un appartamento un po’ decadente – come la maggior parte di quelli che si vedono li – che noi abbiamo subito cominciato a chiamare “casa”.
Sussuarana è un grande quartiere periferico che conta circa 10 mila abitanti, molti dei quali vivono in condizioni di povertà assoluta in una zona mal servita da ogni servizio pubblico; le abitazioni sono le tipiche casette in mattoni – molte ancora non terminate per mancanza di denaro – a cui pensiamo quando sentiamo il nome di favela.
Di fronte a noi abitava Padre Artù, il nostro stravagante missionario comboniano. Tutte noi ci chiedevamo cosa facesse un missionario che dedica tutta la sua vita a quella gente che vive emarginata dalla società, dimenticata da tutti e spesso senza un apparente futuro. Si potrebbe pensare che un missionario, in quanto prete, passi le sue giornate predicando la parola di Dio “convertendo gli infedeli” del posto; io conoscendo Artù ho imparato che si fa molto di più.
Lui non si trovava lì per predicare e parlare alla gente degli avvenimenti narrati nel Vangelo o per sopprimere le credenze animiste che ancora fanno parte della cultura afrobrasiliana dei Bahiani.
Artù – come molti altri missionari che poi ho conosciuto o dei quali ho sentito parlare – dedicava tutte le sue energie per mettere in pratica quegli insegnamenti e aiutare concretamente quella gente con ciò di cui avevano realmente bisogno.
Malgrado il fatto che il Brasile sia stato l’ultimo paese a mettere in vigore le leggi abolizionistiche, ormai sono passati comunque più di cento anni dall’approvazione della legge Aurea che nel 1888 aboliva la schiavitù. Eppure ci si domanda se la schiavitù sia finita davvero, infatti questa legge garantiva solamente la libertà dai propri padroni agli schiavi neri, senza però fare assolutamente nulla per integrare nella società quei milioni di persone che per secoli avevano vissuto emarginati e trattati come oggetti da lavoro.
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La schiavitù moderna.
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La legge Aurea fu semplicemente un contratto che permetteva di continuare lo sfruttamento illecito dei lavoratori, senza però ricevere più pressioni dagli altri stati abolizionisti, in quanto sulla carta gli schiavi erano ormai persone libere.
In realtà queste persone all’alba della “libertà” si trovarono in condizioni quasi peggiori: non avendo più la protezione dei padroni, né un risarcimento per gli anni di servitù e di conseguenza nessun mezzo che permettesse loro di iniziare una vita indipendente come agricoltori o artigiani. Di fatto molti schiavi ormai anziani o ancora troppo giovani per cavarsela da soli rimasero ancora sotto il giogo dei propri padroni. I “fazendeiros” avevano comunque bisogno della mano d’opera per mandare avanti le produzioni agricole e il settore secondario; gli schiavi vennero così presto sostituiti dagli immigrati alla ricerca di un lavoro. Questi lavoratori non erano più schiavi di proprietà del padrone, venivano retribuiti per i loro servigi ma solamente il minimo indispensabile, o spesso anche meno. Si può quindi dire che dai tempi dell’abolizione fino ad oggi la schiavitù continua ad essere una realtà per migliaia e migliaia di persone, sono cambiati i termini e gli accordi, ma l’essenza rimane invariata.
La maggior parte di questi schiavi moderni lavora nelle piantagioni di soia, cotone, mais, riso, canna da zucchero, negli allevamenti di bestiame, nella produzione e vendita del carbone e negli impianti idroelettrici. Queste persone vengono sfruttate fino allo stremo, picchiate e minacciate con la violenza senza nessuna possibilità di ribellione e giustizia.
Per molti è una scelta: piuttosto che rimanere vittime di una povertà che dilania in due il Brasile, preferiscono ricevere quel poco che permette loro di tirare avanti e magari mantenere a stenti la propria famiglia. Sono pronti ad abbandonare le loro terre per recarsi a lavorare altrove.
Gli stati del Brasile dove si trovano il maggior numero di schiavi sono il Maranhão, Parà, Bahia e Mato Grosso do Sul, ovvero nelle regioni più povere e arretrate del Paese.
Negli ultimi decenni il governo federale brasiliano ha cominciato ad effettuare dei controlli da parte di gruppi mobili di vigilanza, i quali provvedono a denunciare e liberare i lavoratori in condizioni disumane.
In Brasile, e soprattutto nella Bahia, non c’è solamente il problema della schiavitù che continua, ma anche e soprattutto il problema dell’integrazione dei discendenti degli schiavi africani.
Proprio di questo si occupano molti missionari nello stato della Bahia, cercando di aiutare queste persone ad essere fiere delle proprie origini e non dimenticare il passato dei loro progenitori.